giovedì 13 febbraio 2014

A proposito... del gatto dei Coen

(attenzione! si racconta esplicitamente la trama del film)

Alla fine devo scriverne anch'io. Ne ho letto lodi sperticate, e critiche feroci per il trattamento riservato al povero gatto: io, pur fan dei Coen, non posso dirmi convinta della loro ultima fatica che ho trovato a tratti piuttosto noiosa. Beh, certo, ci sono quei gustosissimi momenti di comicità perfetta e ironia sottile di cui i fratelli sono insuperati maestri: l'agente infido e la sua segretaria-dattilografa per esempio, o le coppie ospiti dei Gorfein, gli amici che danno un letto allo sfigatissimo Davis - folksinger senza successo - quando è alla canna del gas.


Ed è dei Gorfein il gatto che accompagnerà Davis nel suo vagabondare inconcludente e disperato tra la Grande Mela e Chicago. Gatto che fugge e viene ritrovato e restituito ai proprietari, che lo rifiutano perché non è il loro Ulisse, gatto maschio, ma una gatta.
Quando Davis parte per Chicago con un luciferino musicista jazz è costretto a portarsela dietro. Mentre gli eventi precipitano e la tempesta infuria, Davis la abbandonerà. Nel viaggio di ritorno, più o meno nel punto dove aveva lasciato la povera bestia al suo destino, l'auto che sta guidando urta qualcosa: non riuscirà, e noi con lui, a capire di che animale si trattasse.
Più tardi, ancora ospite dei Gorfein, si sveglierà in una casa vuota con il gatto Ulisse. Il film, a questo punto, ricomincia dalla scena iniziale, con nuovi dettagli da cui si capiscono alcuni fatti accaduti in precedenza.
Ma, se ci pensiamo bene, per tutto il film (di cui ho trascurato molti particolari) Davis si barcamena nella scelta di continuare con la musica o riprendere il suo vecchio lavoro di marinaio, e quando sembra essersi deciso perde i documenti. Non sa cosa fare con l'acida ragazza che ha messo incinta. Decide di andare dal catatonico padre, ma quando sembra che il vecchio reagisca, beh, la situazione degenera. E anche con il gatto è così: non solo niente è come sembra, ma in qualche modo la bestia riapparirà nel buio lasciando Davis nel dubbio.
Questi dubbi, la perenne incertezza su scelte esistenziali sono un flusso di coscienza, lo stream of consciousness di joyciana memoria (e non per nulla il gatto si chiama Ulisse), un monologo interiore nell'offuscato sentire del dormiveglia: perché secondo me Davis ha sognato o immaginato tutto. Ha sognato la ragazza, il medico abortista, la sorella, l'agente, l'ufficio del sindacato, il jazzista tossico e il suo autista, l'impresario di Chicago, la fuga del gatto, l'ombra freudiana della bestia ferita lungo l'autostrada.
E si ritrova al punto di partenza, ben attento ad evitare che il gatto scappi dalla porta lasciata incautamente socchiusa. La giornata gli porterà scoperte amare cui Davis reagirà perdendosi in alcolici conforti dalle disastrose conseguenze. L'agnizione, nel finale, rivelerà a noi spettatori cos'è accaduto in quel vicolo sul retro del Gaslight, mentre all'interno un altro folksinger si sta esibendo con ben diversa fortuna. Qualsiasi cosa abbia deciso Davis della propria vita, sappiamo che la sua stella non ha certo brillato nel firmamento della musica. Il gatto dei Gorfein non è mai scappato, e la gatta rossa non è mai stata abbandonata.
Amici gattari, possiamo stare tranquilli. I Coen non ci hanno tradito.


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