mercoledì 31 agosto 2011

Gatti, gatti selvatici e fucili

Ovvero come la Svizzera autorizza l'abbattimento dei "gatti domestici inselvatichiti".
Per capire, partiamo dalla mozione "Vietare la caccia crudele e inefficace ai gatti domestici inselvatichiti" , firmata da 12000 cittadini, che Luc Barthassat ha presentato al Parlamento svizzero.

Il Consiglio federale è incaricato di sottoporre al Parlamento un progetto di revisione parziale della legge federale sulla caccia e la protezione dei mammiferi e degli uccelli selvatici (LCP), in particolare del relativo articolo 5 capoverso 3 lettera a, al fine di vietare la caccia ai gatti domestici inselvatichiti. Dovranno essere previste misure alternative alla caccia, come ad esempio delle campagne di sterilizzazione e di castrazione. Deroghe a questo divieto potranno essere mantenute se l'interesse pubblico lo esige, in particolare in casi di urgenza sanitaria (ad es. epidemia di rabbia).

Questa la risposta del Consiglio Federale:

I gatti domestici inselvatichiti, ossia i gatti che non necessitano delle cure e della custodia dell'uomo, possono essere cacciati tutto l'anno. Questo per due motivi: innanzitutto, perché attraverso un incrocio del patrimonio genetico (ibridazione genetica) minacciano i gatti selvatici indigeni; poi, in quanto rappresentano un pericolo considerevole per uccelli, lepri e rettili.

Contrariamente a quanto indicato nella mozione, l'abbattimento di gatti domestici inselvatichiti non è affatto frequente. Stando ai Cantoni, oggigiorno i gatti randagi rappresentano soltanto un problema sporadico.

L'abbattimento di tali gatti può essere ordinato dai servizi cantonali della caccia, dalla polizia o dai servizi veterinari cantonali. Le trappole non sono efficaci, in quanto questi gatti si lasciano difficilmente catturare. Limitarsi a campagne ufficiali di cattura e di sterilizzazione dei gatti domestici inselvatichiti comporterebbe spese sproporzionate e costi elevati. Occorre pertanto lasciare ai Cantoni la competenza di decidere come far fronte alla problematica dei gatti randagi. Già oggi, numerosi Cantoni ne consentono l'abbattimento solo agli organi di vigilanza competenti.

Il Consiglio federale considera quindi inopportuno sancire nel diritto federale un divieto di caccia dei gatti domestici inselvatichiti. Ciò costituirebbe un'inutile violazione della sovranità cantonale nell'ambito della caccia.

L'Ufficio Federale per l'Ambiente ritiene inoltre che i gatti inselvatichiti siano una minaccia per il gatto selvatico:
I gatti selvatici non sono gatti domestici inselvatichiti, ma due sottospecie distinte. Il gatto selvatico è una specie europea, mentre quello domestico discende dal gatto selvatico asiatico o africano.
Nonostante vivano fianco a fianco da secoli, in seguito all'estensione delle aree insediative i gatti selvatici entrano più sovente in contatto con i gatti domestici in libertà e, in parte, anche inselvatichiti. L'incrocio di queste due specie (ibridazione) può far nascere degli esemplari
(ibridi) capaci di procreare. L'ibridazione con il gatto domestico rischia di provocare la graduale scomparsa genetica del gatto selvatico.

Preso atto che la sottospecie selvatica sia minacciata, il problema è puramente economico.
Il Consiglio Federale ha scelto la strada più sbrigativa e meno costosa, non certo quella del rispetto di entrambe le specie, e del rispetto degli animali in genere.
Sparare ai gatti! Come ricorda il deputato Barthassat, le prove di animali mutilati da colpi d'arma da fuoco sono numerose. Inoltre, la caccia si svolge anche in aree urbane, con conseguenti problemi di sicurezza anche per gli umani. Lo stesso tipo di norma è stata cancellata in Francia, dove la sterilizzazione e il controllo delle colonie sono una soluzione più che valida al problema.

martedì 30 agosto 2011

Le vacanze di BonBon

Un gatto in vacanza dorme come a casa, ma va anche a caccia nel bosco. Toporagni, lucertole, uccellini, anche - senza successo - scoiattoli. Nel giro di poche ore, il gatto cittadino si trasforma.

Le vittime:



Guardare dalla finestra è molto appassionante.

Ma una dormitina al sole è ancora meglio:


Se il sole non c'è, va bene anche il tavolo:

Poi si va all'altra finestra, quella da cui si parte per le avventure nel bosco. Tanto poi si torna a casa, con un agile salto:
In attesa che tutti tornino dalle passeggiate, si pensa alla pappa in arrivo:


I cani di Ground Zero

Qualche giorno fa su Repubblica è comparso questo commovente articolo di Vittorio Zucconi, corredato di molte foto degli eroici cani e che riporto integralmente:

L´11 settembre 2001 arrivarono in trecento da ogni parte del Paese ad annusare il più grande cratere che gli Stati Uniti avessero mai conosciuto. Facevano parte di unità speciali. Per tre mesi cercarono tra le macerie. Trovarono i feriti, i cadaveri e i loro resti. Si chiamavano Red, Merlyn, Tuff, Abby. Erano labrador, golden retriever, dobermann e semplici meticci. Solo uno di loro non tornò a casa. Puntavano immobili se sentivano un vivo, si rotolavano a terra se invece là sotto c´era odore di morte .
Per Abby la vita era un gioco, un pupazzetto di gomma da tirare coi denti, anche se la vita era la sua e in quel gioco avrebbe potuta perderla. Abby era una dei trecento angeli con la coda, cani di ogni razza, colore, cocktail di meticci assortiti con la coda che la Fema, la Protezione civile americana, la polizia di New York, le squadre di volontari venuti da tutta la nazione, portarono ad annusare il più grande cratere che mai gli Stati Uniti avessero conosciuto, a cominciare dalla mattina dell´11 settembre 2001.
Lei veniva da un canile di San Francisco, dove i cani figli di nessuno aspettano o che qualcuno li salvi o che li mettano a dormire per sempre, e aveva il carattere giusto per il lavoro che l´attendeva. Esuberante e attenta, frenetica e giocosa, socievole e disposta a fare qualsiasi cosa pur di ricevere alla fine una pacca sulla testa, un «good dog, Abby», brava cagnolina, e il suo tiraemolla di gomma che faceva squiiiik squiiiik a morderlo.
L´addestratrice e amica, Debra Tosch della polizia di San Francisco, che per tre anni l´aveva allenata dopo averla scelta e salvata dal mattatoio comunale, non l´aveva mai vista all´opera sulla scena di un disastro vero. E comunque neppure la simulazione più realistica avrebbe mai potuto approssimare quello che la squadra venuta dalla California e le altre unità di K-9, la sigla che con la solita fretta americana suona abbreviata come «canine», trovarono l´11 settembre. Travi di acciaio ancora roventi e caverne immense sotto lastroni di cemento, schegge di cristallo invisibili nascoste dentro crepacci senza fondo e polvere ovunque mescolata a cenere. E sotto il vulcano la possibilità, l´ipotesi, l´illusione di trovare una persona in vita. «Non sapevo se calzare Abby con le scarpine per proteggere le zampe o lasciarle libere, perché le scarpine le avrebbero evitato ferite e tagli, ma un cane con gli stivali perde la presa e la sensibilità. Rischia di scivolare e precipitare in una di quelle voragini». Decise di lasciarla a zampe nude.
Il caos della buona volontà era totale e non soltanto l´addestratrice era confusa. Non tutti i cani, dobermann e labrador di ogni colore, golden retriever dal sontuoso pelo dorato e fieri bastardoni di inestricabile dna, cani d´acqua portoghesi e pastori di ogni denominazione e confessione, tedeschi, australiani, malinois, tervuren, bernesi, erano bene addestrati. Molti si aggiravano tra i rottami senza sapere esattamente che fare. I migliori, quelli che da più anni avevano giocato al gioco della vita, scovando e salvando i volontari nascosti tra macerie di case demolite spesso accanto a carogne di animali per imparare a distinguere fra il sentore della morte e l´alito della vita, conoscevano il drill, la procedura. Sapevano puntare immobili davanti al possibile pertugio dove giaceva un vivo, rotolarsi nella polvere se annusavano la morte, abbaiare furiosamente, nel frastuono dell´ora, per richiamare l´attenzione degli umani e far pipì nel punto da marcare per altri. Altri facevano soltanto un gran bordello, esattamente come i soccorritori, talvolta più generosi che organizzati.
Abby, di lontana e vaga ascendenza labrador, aveva subito capito che aria tirava e si era messa a far coppia con un partner serio, Sirius, un labrador color cioccolato, di pedigree impeccabile. I due lavoravano in sintonia come vecchi poliziotti veterani. Sirius era più spavaldo, un po´ incosciente, un macho. Abby più cauta, attenta, ma tenace. Debra, la sua addestratrice, la vide spesso seguire il maschio e poi tornare sui suoi passi per ristudiare qualche pertugio o groviglio che il frenetico compagno aveva già sorpassato per correre oltre. Tutti e due, ignorando sempre e risolutamente gli altri cani che a volte li avvicinavano per annusarsi, conoscersi, scambiarsi un po´ di odore, dimenticando di essere soccorritori e ricordandosi di essere cani. < Lavorarono per tre giorni e tre notti, con brevi sonnellini esausti e pause per bere e mangiare, sotto le luci spaventose delle celle fotoelettriche e in un rumore che alle loro orecchie di cani doveva suonare come per un umano quello di una turbina di aereo. Sirius aveva imparato a distinguere i cadaveri, che oltrepassava dopo avere fatto un cenno con il muso, o con una pisciatina, all´handler, all´accompagnatore, dai moribondi, che lasciava alla femmina, perché si piantasse sul posto fino all´arrivo di uomini con piccozze e pale. Abby era più soggetta a malinconie e momenti di depressione, più facile a disidratarsi e ad avere diarree che il Centro d´emergenza veteranaria allestito per curare i cani trattava. Alle depressioni e alle crisi di nervi provvedevano gli addestratori con il semplice trucco di nascondersi sotto una lastra e farsi trovare, per poter ricompensare gli animali con la carezza, il «good dog!» e il pupazzetto che faceva squiiiik squiiiiik. Le ricompense che non avrebbero mai potuto o dovuto dare se Abby e gli altri non le avessero meritate, per non rovinarli. Insieme, in mezzo alla canea, Sirius e Abby individuarono venti resti umani, in tre giorni, resti perché definirli cadaveri sarebbe un´iperbole, e cinque persone ancora in vita, anche se tre di loro vivi non per molto. Un lavoro che neppure le microcamere, i rilevatori radar di profondità e i sensori a infrarossi, spesso inutili nel calor bianco di rovine che avrebbero rosolato per settimane, seppero, individualmente, fare. Senza i cani come loro, senza quelle squadre di Sar, «Search and Rescue», cerca e salva, i 2.752 morti dell´11 settembre a Manhattan sarebbero stati anche di più. Qualcuno deve dunque la propria vita a un altro, osceno attacco di dementi, quello avvenuto il 19 aprile del 1995 a Oklahoma City, quando la Protezione civile, i vigili del fuoco, gli agenti di polizia scoprirono di non avere abbastanza cani per annusare tra le macerie del palazzo del governo e allora fu lanciato un programma di addestramento sistematico di K-9, per avere a disposizione 200 squadre di angeli con la coda. A Ground Zero lavorarono insieme per tre giorni e poi altri battaglioni di cani presero il posto dei primi arrivati, esausti, nei turni e nella fatica di dare almeno ai vivi la certezza che i loro morti fossero stati trovati e identificati. Il padre di una ragazza di 26 anni, un´impiegata della Cantor Fitzgerald rimasta anonima, invierà un assegno di un milione di dollari soltanto alla sezione di San Francisco, quella di Abby, per gratitudine. La figlia era una dei morti scovati dai loro cani. E tre mesi più tardi, quando tutte le ricerche furono abbandonate, anche gli ultimi cani furono richiamati. Senza che avessero riportato ferite gravi, fratture, lesioni, infezioni. Quasi un miracolo. Quasi. Perché nel pomeriggio del terzo giorno, il 13 settembre, quando la speranza di trovare ancora qualche superstite era ormai la fiamma di una candelina, Sirius e Abby si lanciarono in un´ultima carica insieme. Come sempre fu il maschio a schizzare in testa, cane alfa sino in fondo, e a fermarsi agitandosi davanti a un crepaccio che il movimento delle ruspe aveva aperto involontariamente. Abby, prudente ma attenta, lo aveva seguito, affiancandolo e attirando un vigile del fuoco allo stremo. Cani e uomini si erano affacciati sul buco nero, sporgendosi per puntare occhi, nasi e torce nel buio sottostante. Il labbro di terriccio e di fango rappreso sul bordo aveva ceduto. Un cane e un uomo erano piombati dentro insieme. Abby aveva abbandonato ogni cautela femminile. Sul bordo del cratere aveva cominciato a latrare disperatamente per richiamare altri umani. Arrivarono i soccorsi. Colleghi del vigile sprofondato si calarono nel buio e trovarono quattro metri sotto l´uomo con le gambe spezzate, ma vivo, riportandolo alla superficie. Sirius, il labrador color cioccolato precipitato con lui, era morto. Debra Tosch, l´amica di Abby, la dovette strappare via da quel cratere quasi a forza, lei che era sempre così docile e ubbidiente. «Le diedi il suo giocattolino di gomma, per ricompensarla di averci aiutato a salvare quel pompiere. Ma per la prima volta, lei lo rifiutò, non lo volle». Sirius, il compagno di Abby, sarà l´unico cane morto nell´operazione di salvataggio. Neppure Abby era riuscita a salvarlo. Anche gli angeli hanno i loro limiti.


Mi ricordavo però di un'altra storia, secondo la quale molti dei cani impiegati a Ground Zero sono morti proprio a causa del loro lavoro su un terreno altamente contaminato. Questo è l'articolo che lo stesso Zucconi pubblicò nel 2002.

lunedì 8 agosto 2011

Storie del gattile

Ricevo la newsletter dell'ENPA MONZA con tante storie belle e tristi.

"In questa primavera/estate targata 2011, in cui all’ENPA siamo arrivati a ospitare oggi ben 183 gatti - di cui 68 mici adulti e 64 gattini nel Gattile di via Buonarroti e altri 51 cuccioli presso i Volontari e Collaboratori che fanno parte del Progetto Asilo dei Cuccioli - vi raccontiamo una delle tante vicende di cui sono stati protagonisti i nostri volontari.

Due insegnanti della scuola di inglese di via Confalonieri a Monza segnalano la presenza di un gattino che versa in un cattivo stato di salute all'interno di un giardino di una cascina abbandonata. Lo stesso giorno e nello stesso luogo una signora americana recupera un cucciolo magrissimo e con gli occhi malati e lo consegna agli operatori della sede di via Lecco 164.
Si poteva pensare che il caso fosse risolto ma, nel dubbio, due giorni dopo la volontaria Milena R. si reca sul posto per fare un sopraluogo insieme a Gina, una delle insegnanti. La preoccupazione è che il gattino recuperato e bisognoso di cure urgenti non sia solo.
Il giardino dove era stato visto il gattino malato confina con una cascina abbandonata, posto perfetto per ospitare una colonia. La preoccupazione è fondata: in un tombino (foto a sinistra) mamma gatta aveva messo alcuni piccolini al riparo. Milena aspetta che la mamma si sposta per vedere cosa c'è nel tombino, e con sgomento scopre che questo tombino finisce con un cunicolo. Per farli uscire, fa cadere dentro il tombino dei bocconcini di pappa, e poco dopo tre testoline rosse fanno capolino per avventarsi sul cibo.
Quel giorno riesce a prendere i primi due piccolini di circa 50 giorni. Poi uno alla volta nei giorni successivi, insieme a Gina e ad Anna M., un’altra volontaria ENPA che si occupa di colonie feline, riesce a recuperare dal tombino tutti e sei i piccolini, prevalentemente rossi come la mamma e il papà.
Ma le sorprese non sono finite. Nel retro di questa cascina abbandonata si accorgono che su una scala ormai inghiottita interamente dalla vegetazione qualcosa si muove... Altri cinque gattini di circa due mesi, o poco meno, tutti tigrati nocciola, fanno la loro comparsa. Con infinita pazienza, e un numero di appostamenti che sembra non finire mai, riescono a recuperare anche loro, concentrando i tentativi di cattura al calar del buio perché i piccoli sono molto diffidenti.
Dopo le visite veterinarie di rito, sei degli undici piccoli vengono affidati alle cure di Marisa e Eugenia, due nuove collaboratrici dell’Asilo dei Cuccioli, mentre gli altri cinque vengono collocati presso il Gattile.

Terminato il recupero dei piccoli, cominciano le catture per la sterilizzazione degli adulti: a breve anche questa operazione verrà completata, e Gina penserà poi a nutrirli una volta rimessi in colonia.
Di questa vicenda, che ha avuto anche un esito triste ma per certi versi prevedibile (tre dei gattini del tombino troppo debilitati sono deceduti nei giorni successivi) rimane comunque un rammarico: queste cucciolate indesiderate, il cui futuro sarebbe stato davvero incerto, non avrebbero dovuto neppure nascere se proprietari incoscienti avessero provveduto per tempo a sterilizzare e ad accudire le proprie gatte, evitando loro di diventare semiselvatiche, con tutte le conseguenze del caso.
Sono proprio questi tipi di animali a dare origine alle colonie feline: non ci stancheremo mai di invitare tutti coloro che avessero conoscenza di queste situazioni ad informare immediatamente, per colonie feline presenti sul territorio del Comune di Monza, l’Ufficio Diritti Animali (UDA) di Monza in Via Procaccini 15 (aperto il martedì e giovedì dalle 9.00 alle 12.00 - tel. 039-2043428 - fax 039-2043441 - email diritti.animali@comune.monza.it).
L’UDA, una volta “registrata” la presenza di una colonia felina, richiederà il nostro intervento per avviare il prima possibile l’intervento di censimento, cattura e sterilizzazione dei mici che ne fanno parte."

Nella foto Parsifal, uno dei gattini del tombino di via Confalonieri, che nonostante le cure tempestive e tre ore di flebo, è stato stroncato da una gastroenterite virale fulminante.