Da Repubblica del 15 ottobre 2011, di DARIO CRESTO-DINA
Niccolò Ammaniti: "La mia vita con la famiglia animale"
Lo scrittore racconta la sua passione: "Sono cresciuto con barboncini, cocker e meticci. Ho avuto anche venti acquari, guardavo quelli invece della tv. Mi sono affrancato dalla famiglia quando a 23 anni ho scelto un quasi dalmata tutto per me"
QUANDO abbiamo cominciato a diventare genitori adottivi dei nostri animali, a mischiarci con loro e cercare una lingua comune alla faccia delle tesi sostenute da Aristotele e Descartes? Negli uffici romani dell'Einaudi, lo scrittore Niccolò Ammaniti sfoglia Charles Darwin. "Il cane è stato addomesticato in Europa molto prima di qualsivoglia documentazione storica. In Danimarca, tra resti di pasto risalenti al neolitico, o età della pietra nuova, sono state rinvenute ossa di canide e Steenstrup ha ingegnosamente arguito che appartenevano a un cane domestico, poiché gran parte delle ossa di uccelli conservate tra gli avanzi consiste di ossa lunghe e sappiamo per esperienza che i cani non possono divorarle". Se questa deve essere la risposta, si tratta di circa ottomila anni fa, anche se allora ci accomunava più di adesso anche la ferocia.
Ammaniti è cresciuto tra gli animali, li ha messi nei suoi romanzi assegnando a molti personaggi caratteri ferini, li ha educati e si è fatto educare da loro. "È una esperienza esaltante scoprire la loro intelligenza e il meraviglioso sforzo di volontà a cui si sottopongono per capire il carattere e la lingua dell'uomo. La loro ipersensibilità è direttamente collegata ai nostri sensi di colpa".
Oggi, se osserva da qualche metro di distanza il proprio autoritratto, è soddisfatto del risultato, e le sue care bestie sembrano esserlo altrettanto. "Avevo due anni quando in casa arrivò Teo, un cocker, poifu la volta del barboncino Piggy e con il tempo si è avvicendata una lunga lista di meticci, quelli che chiamiamo bastardi, alcuni trovati in strada, altri salvati dalla tristezza di qualche gabbia. Posso dire di essermi davvero affrancato dalla famiglia solo quando ho preso un cane tutto mio. Lo scelsi al canile, era una femmina che da lontano assomigliava a un dalmata ma credo fosse il frutto dell'incrocio tra uno spinone e una razza argentina. La chiamai Zoe. Avevo ventitré anni, s'iniziò la mia vita e cominciai a scrivere".
La stagione da cannibale e i racconti raccolti in Fango lo portarono a attraversare l'Italia e se stesso. Gli occhi di Zoe furono il suo specchio, un'affilata coscienza superficiale che scodinzolava con la lingua a penzoloni. "Viaggiavo con lei dentro l'anarchia della giovinezza, a volte bevevo, smarrivo la lucidità, tornavo a notte tarda in casa o in albergo e trovavo il suo sguardo smarrito, dolente, oppure di rimprovero. Avevo smantellato le sue abitudini, le sue certezze, forse persino la fiducia che fino ad allora aveva riposto nel suo padrone. La portai da mia madre e le dissi: tienila qualche tempo con te. Mi rispose: no, da questo momento è mia".
Il saggio di Darwin, che è considerato una delle sue tre opere maggiori insieme con l'Origine della specie e l'Origine dell'uomo, si intitola La variazione degli animali e delle piante allo stato domestico. Oggi il titolo andrebbe capovolto per raccontare la variazione dell'uomo allo stato domestico provocata dalla sua convivenza con gli animali.
Lo scrittore racconta la sua passione: "Sono cresciuto con barboncini, cocker e meticci. Ho avuto anche venti acquari, guardavo quelli invece della tv. Mi sono affrancato dalla famiglia quando a 23 anni ho scelto un quasi dalmata tutto per me"
QUANDO abbiamo cominciato a diventare genitori adottivi dei nostri animali, a mischiarci con loro e cercare una lingua comune alla faccia delle tesi sostenute da Aristotele e Descartes? Negli uffici romani dell'Einaudi, lo scrittore Niccolò Ammaniti sfoglia Charles Darwin. "Il cane è stato addomesticato in Europa molto prima di qualsivoglia documentazione storica. In Danimarca, tra resti di pasto risalenti al neolitico, o età della pietra nuova, sono state rinvenute ossa di canide e Steenstrup ha ingegnosamente arguito che appartenevano a un cane domestico, poiché gran parte delle ossa di uccelli conservate tra gli avanzi consiste di ossa lunghe e sappiamo per esperienza che i cani non possono divorarle". Se questa deve essere la risposta, si tratta di circa ottomila anni fa, anche se allora ci accomunava più di adesso anche la ferocia.
Ammaniti è cresciuto tra gli animali, li ha messi nei suoi romanzi assegnando a molti personaggi caratteri ferini, li ha educati e si è fatto educare da loro. "È una esperienza esaltante scoprire la loro intelligenza e il meraviglioso sforzo di volontà a cui si sottopongono per capire il carattere e la lingua dell'uomo. La loro ipersensibilità è direttamente collegata ai nostri sensi di colpa".
Oggi, se osserva da qualche metro di distanza il proprio autoritratto, è soddisfatto del risultato, e le sue care bestie sembrano esserlo altrettanto. "Avevo due anni quando in casa arrivò Teo, un cocker, poifu la volta del barboncino Piggy e con il tempo si è avvicendata una lunga lista di meticci, quelli che chiamiamo bastardi, alcuni trovati in strada, altri salvati dalla tristezza di qualche gabbia. Posso dire di essermi davvero affrancato dalla famiglia solo quando ho preso un cane tutto mio. Lo scelsi al canile, era una femmina che da lontano assomigliava a un dalmata ma credo fosse il frutto dell'incrocio tra uno spinone e una razza argentina. La chiamai Zoe. Avevo ventitré anni, s'iniziò la mia vita e cominciai a scrivere".
La stagione da cannibale e i racconti raccolti in Fango lo portarono a attraversare l'Italia e se stesso. Gli occhi di Zoe furono il suo specchio, un'affilata coscienza superficiale che scodinzolava con la lingua a penzoloni. "Viaggiavo con lei dentro l'anarchia della giovinezza, a volte bevevo, smarrivo la lucidità, tornavo a notte tarda in casa o in albergo e trovavo il suo sguardo smarrito, dolente, oppure di rimprovero. Avevo smantellato le sue abitudini, le sue certezze, forse persino la fiducia che fino ad allora aveva riposto nel suo padrone. La portai da mia madre e le dissi: tienila qualche tempo con te. Mi rispose: no, da questo momento è mia".
Il saggio di Darwin, che è considerato una delle sue tre opere maggiori insieme con l'Origine della specie e l'Origine dell'uomo, si intitola La variazione degli animali e delle piante allo stato domestico. Oggi il titolo andrebbe capovolto per raccontare la variazione dell'uomo allo stato domestico provocata dalla sua convivenza con gli animali.
Il 41,7 per cento degli italiani ha un animale in casa, di questi il 48 per cento possiede un cane e il 33,4 per cento un gatto. Il 4,9 per cento nutre pesci, il 4,1 uccelli, il 2,1 conigli, l'1,6 criceti e lo 0,8 rettili. L'87 per cento prova nei loro confronti solo sentimenti positivi e oltre il 31 per cento li sente alla stessa stregua di un amico se non di un familiare.
Notizie dal mondo dell'ultima settimana: negli Stati Uniti un numero sempre maggiore di persone pretende di dire addio al proprio cane o gatto in casa e non in una clinica veterinaria; a Berlino si registra il boom delle pensioni per cani che offrono filastrocche e ninne nanne per far addormentare felici gli ospiti lasciati a caro prezzo dai padroni partiti per (brevi) vacanze; in Svizzera un popolare marchio di cibi per animali ha lanciato uno spot tivù con suoni ad alta frequenza per catturare dallo schermo l'attenzione diretta del cane che abbaiando e alzandosi sulle zampe posteriori dovrebbe "comandare" il suo papà umano all'acquisto.
Niccolò Ammaniti, che ha studiato scienze biologiche, anatomia comparata, etologia e zoologia, nel rapporto con i suoi compagni ha conservato invece un atteggiamento laico confortato da letture giovanili che vanno da Jack London alla Collina dei conigli di Richard Adams e La mia famiglia e altri animali di Gerald Durrel.
che, come tra gli esseri umani, anche tra l'uomo e l'animale ci sono misteri che devono perdurare: "È la natura a volere così. Credo che i cani abbiano un linguaggio e una predisposizione sociale che permette loro di vivere accanto a noi, ma nello stesso tempo debbano mantenere qualcosa di selvaggio, perché è ciò che li distingue da noi e ci aiuta reciprocamente a misurare le giuste distanze. Qualcosa di Zanna Bianca, i denti bianchi sguainati mi sono sempre piaciuti. Poi mi commuove in loro l'attitudine alla felicità e all'amore che in fondo sono particelle dell'anima. Ho sempre patito con largo anticipo la morte dei miei cani proprio perché vedo nella fine la perdita di un'armonia comune e quasi celeste che mi ottenebra. Sono così turbato da questa prospettiva da aggirarmi su Internet per leggere tutto ciò che trovo sulle tecniche di clonazione".
Il dolore è conoscenza. Ammaniti ne è consapevole. Quand'era ragazzo studiava i pesci, il suo primo romanzo fu Branchie, snocciolava a memoria i nomi di tutte le specie d'acqua dolce. "Avevo venti acquari, alcuni da seicento litri, vivevo dentro una stanza d'acqua. Invece di guardare la televisione come i miei coetanei, io guardavo gli acquari. I pesci erano tutti diversi, metterli assieme era come inserire i personaggi nella trama di un libro di fantascienza o in un poliziesco. Se sbagliavi ci scappava il morto". Oggi i pesci sono rimasti in una grande vasca della campagna toscana. Nella casa di Roma ci sono invece un levriero whippet e un bouledogue francese. Twiggy e Eva, donne, pardon, femmine. La metafora di Don Quichote, il magro e il tondo. Viaggiano con la famiglia, ovunque si vada. "A volte mi guardano pieni di gioia, altre con sospetto. Spesso sono felici, a volte tremano di paura. Scorre nel loro sangue la ricchezza degli umili".
Notizie dal mondo dell'ultima settimana: negli Stati Uniti un numero sempre maggiore di persone pretende di dire addio al proprio cane o gatto in casa e non in una clinica veterinaria; a Berlino si registra il boom delle pensioni per cani che offrono filastrocche e ninne nanne per far addormentare felici gli ospiti lasciati a caro prezzo dai padroni partiti per (brevi) vacanze; in Svizzera un popolare marchio di cibi per animali ha lanciato uno spot tivù con suoni ad alta frequenza per catturare dallo schermo l'attenzione diretta del cane che abbaiando e alzandosi sulle zampe posteriori dovrebbe "comandare" il suo papà umano all'acquisto.
Niccolò Ammaniti, che ha studiato scienze biologiche, anatomia comparata, etologia e zoologia, nel rapporto con i suoi compagni ha conservato invece un atteggiamento laico confortato da letture giovanili che vanno da Jack London alla Collina dei conigli di Richard Adams e La mia famiglia e altri animali di Gerald Durrel.
che, come tra gli esseri umani, anche tra l'uomo e l'animale ci sono misteri che devono perdurare: "È la natura a volere così. Credo che i cani abbiano un linguaggio e una predisposizione sociale che permette loro di vivere accanto a noi, ma nello stesso tempo debbano mantenere qualcosa di selvaggio, perché è ciò che li distingue da noi e ci aiuta reciprocamente a misurare le giuste distanze. Qualcosa di Zanna Bianca, i denti bianchi sguainati mi sono sempre piaciuti. Poi mi commuove in loro l'attitudine alla felicità e all'amore che in fondo sono particelle dell'anima. Ho sempre patito con largo anticipo la morte dei miei cani proprio perché vedo nella fine la perdita di un'armonia comune e quasi celeste che mi ottenebra. Sono così turbato da questa prospettiva da aggirarmi su Internet per leggere tutto ciò che trovo sulle tecniche di clonazione".
Il dolore è conoscenza. Ammaniti ne è consapevole. Quand'era ragazzo studiava i pesci, il suo primo romanzo fu Branchie, snocciolava a memoria i nomi di tutte le specie d'acqua dolce. "Avevo venti acquari, alcuni da seicento litri, vivevo dentro una stanza d'acqua. Invece di guardare la televisione come i miei coetanei, io guardavo gli acquari. I pesci erano tutti diversi, metterli assieme era come inserire i personaggi nella trama di un libro di fantascienza o in un poliziesco. Se sbagliavi ci scappava il morto". Oggi i pesci sono rimasti in una grande vasca della campagna toscana. Nella casa di Roma ci sono invece un levriero whippet e un bouledogue francese. Twiggy e Eva, donne, pardon, femmine. La metafora di Don Quichote, il magro e il tondo. Viaggiano con la famiglia, ovunque si vada. "A volte mi guardano pieni di gioia, altre con sospetto. Spesso sono felici, a volte tremano di paura. Scorre nel loro sangue la ricchezza degli umili".
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